Spigolature sul contratto di agenzia: spunti per muoversi nel campo minato del minimo d’affari

Spigolature sul contratto di agenzia: come e perchè la previsione del minimo d’affari può non essere un campo minato. Cover articolo Maurizio Santelli

L’uso del minimo di affari nella prassi dei contratti di agenzia

“Minimo di affari” è il nome colloquiale con cui si indica la quantità di affari che l’agente deve procurare al preponente in un dato arco di tempo, di solito un anno ma anche un periodo minore. Nel caso in cui la soglia non viene raggiunta, la prassi contrattuale prevede diverse conseguenze: il venir meno dell’esclusiva, la riduzione della zona o del portafoglio clienti, la risoluzione del contratto con effetto immediato e per inadempimento dell’agente.

Quest’ultima è la previsione contrattuale maggiormente adottata. Dunque, le parti individuano un rendimento insufficiente dell’agente, che hanno valutato essere un inadempimento tanto importante da permettere al preponente il recesso immediato.

La previsione del minimo di affari può essere motivo di risoluzione diretta oppure oggetto di clausola risolutiva espressa, prevista dall’art. 1256 c.c., vale a dire un motivo che permette all’altra parte di comunicare alla parte inadempiente che il contratto è risolto, con l’effetto di risoluzione che si verifica nel momento in cui la comunicazione viene ricevuta. Questa seconda modalità è quella più usata.

Il recesso del preponente per mancato raggiungimento del minimo di affari

La conseguenza del recesso per inadempimento grave dell’agente non è di poco conto. Infatti, in tale caso il preponente può risolvere il contratto con effetto immediato e senza riconoscere alcuna indennità di mancato preavviso. Può inoltre negare all’agente l’indennità di cessazione, vista la previsione dell’art. 1751, 2° comma c.c., il quale prevede che l’agente non ha diritto all’indennità nel caso in cui il preponente recede dal contratto per un inadempimento che “non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”. Anche i principali AEC (in particolare, dei settori Industria e Commercio), eventualmente applicabili allo specifico contratto di agenzia, negano la gran parte delle indennità finali nel caso di inadempimento dell’agente che non consenta la prosecuzione del rapporto.

La giurisprudenza sul recesso per mancato raggiungimento del minimo di affari

Solitamente la fissazione della soglia del minimo di affari dei contratti di agenzia è frutto di un calcolo del preponente, anche con la partecipazione più o meno sostanziale dell’agente, circa i ricavi necessari, sulla zona affidata all’agente, perché ne consegua un margine operativo accettabile sull’attività dell’agente. Talvolta, in situazioni di particolare criticità di mercato, si arriva a concordare una soglia di ricavi che almeno impedisca l’antieconomicità del rapporto con l’agente. Altre volte il preponente alza tale soglia per avere un margine più consistente. Vi è infine il caso estremo, in cui viene fissato un minimo di affari molto alto, se non irraggiungibile, in qualche modo imposto all’agente, che permette al preponente, ove lo voglia, di risolvere il contratto immediatamente e senza pagare le sopra indicate indennità di preavviso e di cessazione.

Tenendo presente questi diversi approcci alla fissazione dei minimi di affari, si possono apprezzare i due indirizzi antitetici formatisi in giurisprudenza sui limiti all’uso della clausola risolutiva relativa al minimo di affari.

Per il primo indirizzo, il grave inadempimento che permette il recesso con effetto immediato può essere individuato concordemente dalle parti, in ossequio al principio della libertà contrattuale, senza possibilità per il giudice di sindacare la volontà delle stesse. E così nella sede giudiziale non si può compiere alcuna indagine sull’entità dell’inadempimento previsto nel contratto rispetto all’interesse del preponente e/o al contesto contrattuale, ma deve solo accertarsi se l’inadempimento fissato nella clausola è intervenuto ed è imputabile all’agente (Cass. 25194/2021, 4659/1992, 4369/1997, 7063/1987).

Altra giurisprudenza, presente da anni ma che pare affermarsi in quelli recenti, ritiene che tale libertà non risponda ai principi giuridici del contratto di agenzia, per i quali:

a) il recesso deve essere comunicato con un certo preavviso, proporzionale alla durata del rapporto (art. 1750 c.c.), in mancanza del quale la giurisprudenza riconosce all’agente un risarcimento individuato nell’indennità di mancato preavviso, salvo danni ulteriori;

b) il preponente deve riconoscere all’agente l’indennità di cessazione, nei modi e misure previsti dagli accordi economici collettivi oppure dall’art. 1751 c.c.; tale indennità non è dovuta se il preponente risolve il contratto, come sopra accennato, per un inadempimento dell’agente che, “per la sua gravità, non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto” (art. 1751, 2° comma, c.c.).

Tali norme sono parte dell’impianto protettivo che il legislatore ha previsto in favore dell’agente quale soggetto parasubordinato.

In considerazione di queste norme e dell’orientamento legislativo alla tutela dell’agente, la giurisprudenza ha statuito anche l’analogia fra il recesso per giusta causa nel rapporto di lavoro subordinato e quello nel contratto di agenzia, sicché anche il recesso immediato dal rapporto di agenzia deve essere motivato da una giusta causa così come configurata negli anni per il rapporto di lavoro subordinato (Cass. 4337/1992, 7985/2000, 20497/2008 e molte altre).

L’applicazione delle giusta causa lavoristica al contratto di agenzia

La giusta causa di licenziamento nel contratto di lavoro subordinato ha una dimensione sottratta alla disponibilità delle parti. L’art. 2119 c.c. prevede che il recesso possa avvenire con effetto immediato quando “si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto” (ndr, la stessa terminologia contenuta nell’art. 1751 c.c.). Riguardo al recesso del datore di lavoro, cioè il licenziamento, esso può dunque essere intimato con effetto immediato solo per una condotta del lavoratore che leda l’elemento fiduciario su cui si basa il rapporto di lavoro, che comprometta cioè la fiducia del datore di lavoro nel futuro adempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali, oppure per una condotta, anche estranea alla stretta esecuzione della prestazione di lavoro, che sia tale da far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali (ad esempio, condotte che costituiscano reati gravi, cui segua condanna o meno).

Per giurisprudenza costante, il giudizio circa la gravità della condotta deve muovere da elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, sulla base della scala di valori espressa dai principi radicati nella coscienza sociale e nell’ordinamento. In altre parole il giudice considera la situazione concreta sotto ogni punto di vista e valuta la sussistenza della giusta causa in base al sentire comune. Tale valutazione è perciò slegata da criteri di legge diretti e, per un orientamento maggioritario della Corte di Cassazione, anche da eventuali indici di gravità che possano trarsi dalla parte disciplinare del contratto collettivo applicabile al rapporto concreto. Una valutazione così svincolata da criteri prefissati deve essere compiutamente motivata dal giudice, a pena di impugnabilità anche nel giudizio di Cassazione.

Questi principi di valutazione dei motivi del recesso, per l’analogia sopra richiamata, devono dunque essere applicati anche al contratto di agenzia, pur dovendosi tener conto che, nella relazione di agenzia il rapporto di fiducia è più intenso rispetto al lavoro subordinato, a fronte della maggiore autonomia dell’agente nell’esecuzione della prestazione, per cui può essere ritenuta rilevante una condotta meno grave rispetto a quella rilevante per il lavoratore.

Dando seguito a tale argomentazione, la giurisprudenza ha ritenuto che l’inadempimento concordato e previsto nella clausola risolutiva espressa quale fatto che permette il recesso con effetto immediato, non esonera il giudice dal verificare se la condotta dell’agente integri un fatto che lede l’elemento fiduciario secondo i sopra indicati principi radicati nella coscienza comune, in altre parole secondo il senso comune (Cass. 22246/2021, 10934/2011 ed altre).

Perciò la clausola risolutiva espressa, compresa quella in cui è indicato il minimo di affari, non può essere ritenuta applicabile dal giudice se non dopo aver valutato se quanto previsto in essa costituisca un effettivo inadempimento essenziale alla luce degli obblighi delle parti e del contesto, spaziale e temporale, in cui esse operano.

Secondo questa giurisprudenza, quanto ai minimi di affari, il giudice deve valutare se le parti hanno posto troppo in alto l’asticella dell’inadempimento, cioè se hanno previsto minimi eccessivi.

Pertanto, ove non voglia veder dichiarata nulla la clausola che permette il suo recesso immediato al mancato raggiungimento del minimo di affari, il preponente deve concordare con l’agente una commisurazione razionale della soglia in questione.

“Minimo di affari” e riduzione della zona o perdita dell’esclusiva

Trattiamo ora della previsione contrattuale per la quale al mancato raggiungimento del minimo di affari consegue non la risoluzione del contratto di agenzia ma la meno grave riduzione della zona assegnata all’agente o la perdita dell’esclusiva su di essa.

Solitamente i contratti prevedono, in tema, che il preponente abbia facoltà di ridurre unilateralmente la zona, senza ulteriore specificazione dei limiti di tale facoltà.

Per questa fattispecie, la Corte di Cassazione (Ord. 14181/2021 e sent. 13580/2015) ha indicato che il diritto del preponente “può trovare giustificazione nell’esigenza di meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti, così come esse sono mutate durante il decorso del tempo, ma, perché non ne rimanga esclusa la forza vincolante del contratto nei confronti di una delle parti contraenti, è necessario che tale potere abbia dei limiti e in ogni caso sia esercitato dal titolare con l’osservanza dei principi di correttezza e di buona fede”.

Perciò il preponente non può ridurre la zona e così le possibilità di guadagno dell’agente al punto da far risultare inutile o troppo gravosa per l’agente la prosecuzione del contratto, e così portarlo a recedere. Ciò potrebbe costituire giusta causa di recesso dell’agente, con il conseguente diritto all’indennità di mancato preavviso o ad un risarcimento di natura analoga, nonché all’indennità di cessazione ex art. 1751 c.c. o quella prevista negli AEC eventualmente applicabili.

Questa logica vale anche per il caso della perdita dell’esclusiva. Perciò il subentro di altro agente o dello stesso preponente nella promozione di affari all’interno della zona deve essere opportunamente limitato, in modo da salvaguardare una certa misura delle provvigioni ritraibili dalla prosecuzione del mandato.

Le forme della fissazione periodica del “minimo di affari”

Infine, un cenno alla diffusa dinamica per la quale il preponente comunica all’agente il minimo di affari per il periodo a venire e l’agente dà seguito alla comunicazione senza manifestare accettazione per iscritto.

Siamo nel tema della forma delle modifiche al contratto di agenzia.

Ai sensi dell’art. 1742 c.c., il contratto di agenzia “deve essere provato per iscritto”. Si tratta della cosiddetta forma scritta ad probationem del contratto, introdotta per il rapporto di agenzia con la D.Lgs. 303/1991. Non è una forma scritta richiesta per la validità del contratto ma per la prova della esistenza dello stesso. Essa comporta che la conclusione del contratto di agenzia, cioè l’incontro delle volontà delle parti sul vincolarsi in un contratto di agenzia, può essere provata nel processo solo a mezzo di documenti sottoscritti dalle parti stesse (e dai mezzi di prova, residuali e di rarissima evenienza, del giuramento e della confessione).

Ove è richiesta la forma scritta ad probationem, la conclusione del contratto non può invece essere provata a mezzo di testimoni. Nemmeno tale prova può avvenire per presunzioni, cioè provando fatti diversi dalla conclusione del contratto, i quali fanno presumere che essa sia avvenuta. E così non si può provare la conclusione tramite documenti che attestino l’esecuzione del contratto, cioè l’effettuazione delle prestazioni dell’agente e del preponente indicate dal Codice Civile (ad es. la promozione di affari, la trasmissione di ordini, il pagamento di provvigioni, l’emissione dell’estratto provvigionale).

La necessità di prova a mezzo di documento sottoscritto vale non solo per il contratto iniziale ma anche per le modifiche che intervengono in corso di rapporto (Cass. 5165/2015, C. App. Milano 1789/2022, Trib. Bologna Sez. Lav. 201/2019, Trib. Pisa, 1090/2017; anche C.App. Milano 3423/2019, quest’ultima proprio in relazione all’indicazione di nuovi minimi di affari da parte del preponente, pur con motivazione non lineare).

Così la consuetudine di comunicare per iscritto i nuovi minimi di affari senza ottenere l’accettazione parimenti scritta dell’agente non permette di provare l’accordo sui nuovi minimi nel processo civile, a differenza di quanto poteva essere fatto prima dell’entrata in vigore del sopra indicato D.Lgs. 303/1991 (cfr. Cass. 6021/2019 fra le altre). Con la conseguenza che i minimi così condivisi fra le parti del contratto non possono essere fatti valere, in una controversia, dal preponente.