Effetto Covid-19.
Tra incentivi al finanziamento dei soci e moratoria sui fallimenti: (prevedibili) luci e ombre della decretazione d’urgenza a sostegno della continuità aziendale. Note a margine del Decreto Liquidità.
Con il dichiarato e meritorio obiettivo di attribuire oggettività normativa all’impatto dell’emergenza pandemica sull’andamento economico-patrimoniale delle imprese, segnatamente delle società̀ di capitali, il Governo con il Dl. 23/2020 (Decreto Liquidità) introduce la sospensione di svariate norme, significative per numerosità ed impatto, in materia di conservazione della garanzia patrimoniale e rapporti dell’impresa con il ceto creditorio.
Gli effetti sistemici di un simile congelamento saranno concretamente e interamente valutabili nei prossimi mesi, ma la natura dell’intervento ci induce sin d’ora alcune considerazioni e previsioni non del tutto secondarie..
In primo luogo, il decreto mette in soffitta per un ulteriore anno il neonato Codice della crisi d’impresa: se ne riparlerà 1 settembre 2021 con buona pace di sostenitori, detrattori, accademici e pratici che nell’ultimo anno si sono confrontati sui benefici della riforma, ferma restando la perdurante operatività delle norme, già in vigore da marzo 2019 e non sospese dal Decreto, in materia adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’impresa in funzione della pronta ricognizione dello stato di crisi.
Inoltre, fermo l’obbligo incombente sull’organo amministrativo di istituire e mantenere un’organizzazione adeguata ai sensi del Codice della crisi d’impresa, l’art. 6 del Decreto sospende l’applicabilità delle norme civilistiche in materia di conservazione del capitale sociale con conseguente inoperatività – dall’entrata in vigore del decreto sino a tutto il 2020 – della causa di scioglimento per riduzione del capitale per perdite. È infatti sospesa l’operatività degli articoli del codice civile 2446, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma e 2482-ter, 2484, primo comma, n. 4 e 2545-duodecies, con sostanziale esonero di s.p.a, s.rl. e cooperative dall’assunzione delle iniziative a conservazione del capitale sociale, la cui compromissione per effetto delle perdite cessa di costituire una causa di scioglimento della società. Nella medesima prospettiva, per effetto del Decreto viene coerentemente meno un rigoroso obbligo di verifica della sussistenza delle condizioni di continuità aziendale, che l’organo amministrativo potrà in qualche modo dare per scontata nella valutazione delle poste dei bilanci chiusi sino a fine 2020.
Ci soffermeremo, qui, sulle norme di maggiore e diretto impatto sulla composizione e le sorti dell’esposizione debitoria delle imprese in crisi.
In primo luogo, all’evidente e condivisibile scopo di favorire operazioni di finanziamento diretto o indiretto da parte dei soci al fine di sopperire alla carenza di liquidità determinata da chiusure imposte dall’Autorità o dal calo della domanda per l’effetto dell’emergenza Covid-19, molto opportunamente l’art. 8 del Decreto dispone l’inoperatività della regola di postergazione dei finanziamenti effettuati dai soci dal 9 marzo al 31 dicembre 2020 (per effetto dell’inoperatività degli artt. 2467 e 2497-quinquiesc.c.).
In sostanza, i crediti dei soci per finanziamenti diretti o indiretti effettuati per l’esercizio in corso avranno pari rango rispetto a quelli degli altri creditori sociali e identica priorità di soddisfazione (anche in caso di successivo accesso a procedure concorsuali di tipo liquidatorio).
Ricordiamo, infatti, che in condizioni normali l’art. 2467 c.c., che prevede la postergazione del finanziamento del socio effettuato in una situazione di squilibrio patrimoniale, determina la sostanziale inesigibilità del credito del socio (per l’appunto postergato rispetto ai crediti chirografari) o la revoca della totale o parziale restituzione del finanziamento eventualmente effettuata dalla società.
La norma civilistica ha avuto, peraltro, negli anni uno spettro applicativo assai vasto, estendendo la postergazione anche a finanziamenti di tipo indiretto, quali ad esempio la prestazione di garanzie personali da parte dei soci per l’accesso della società al credito bancario o la mancata riscossione dei crediti commerciali da parte del socio, di talché la sospensione della sua operatività per l’esercizio in corso avrà verosimilmente l’effetto di incoraggiare l’apporto temporaneo di risorse economiche (anche sotto forma di garanzie o forniture) da parte dei soci per fare fronte alla crisi di liquidità determinata dal difficile contesto economico conseguente l’attuazione delle misure di contenimento dall’emergenza sanitaria.
In continuità con le precedenti previsioni, il Decreto contiene anche la proroga dei termini per l’adempimento delle procedure concordatarie e degli accordi di ristrutturazione e attribuisce al debitore la possibilità di ottenere dilazioni per il deposito del piano nonché, con disposizione non perfettamente chiara quanto a effetti e obiettivi, l’improcedibilità delle istanze di fallimento depositate nel periodo compreso tra il 9 marzo 2020 e il 30 giugno 2020.
Ebbene, le disposizioni in materia concorsuale pongono più di un dubbio tanto sul piano interpretativo che su quello dei loro effetti, che in sede applicativa – salvo correttivi in sede di conversione – e potrebbero non rivelarsi corrispondenti a quelli auspicati o immaginati dagli estensori.
Qui l’intervento più vistoso è quello che, come visto, determina l’improcedibilità delle istanze di fallimentogià depositate a partire dal 9 marzo scorso e sino al 30 giugno prossimo.
La ratio, evidentemente condivisibile, è quella di impedire in questa delicata congiuntura socioeconomica la pioggia di istanze aventi il loro presupposto in una condizione di fragilità finanziaria delle imprese italiane direttamente determinata o anche solo fortemente aggravata o accelerata dal c.d. lockdown.
Tuttavia, da un lato, si dubita fortemente che la finestra temporale identificata dal governo sia idonea allo scopo e, dall’altro, è possibile prevedere effetti collaterali indesiderati non di poco momento.
In primo luogo – considerazione che appare ovvia a chiunque, professionista o imprenditore, abbia avuto a che fare con una situazione di insolvenza – si considera che con elevatissime probabilità le istanze di fallimento che sarebbero state proposte nel periodo interessato avrebbero avuto il loro presupposto in una condizione di insolvenza del debitore certamente antecedente l’emergenza pandemica, la quale dispiegherà i propri (potenzialmente dirompenti) effetti a partire dal mese di giugno.
Notoriamente, infatti, fatti salvi i casi di istanze proposte dal debitore “in proprio” (anch’esse peraltro apparentemente colpite dall’improcedibilità) lo stato d’insolvenza diventa percepibile al ceto creditorio a seguito di manifestazioni esteriori inequivocabili, che denotino l’incapacità permanente e non solo transitoria di fare fronte agli impegni assunti: tipici indici di tale condizione è l’incapienza di azioni esecutive, il protesto di titoli di credito e simili, tutte circostanze che presuppongono un inadempimento risalente a svariati mesi prima del deposito dell’istanza di fallimento, che nella pratica costituisce l’ultimo, disperato atto del creditore che ha già tentato ogni possibile via di recupero del credito.
Paradossalmente, dunque, la norma sull’improcedibilità – proprio in ragione della finestra temporale identificata dal legislatore – potrebbe aprire un ombrello di protezione su imprese già in conclamato stato di insolvenza per cause risalenti e lasciare del tutto prive di protezione proprio quelle imprese che si troveranno ad affrontare una imprevista crisi di liquidità per effetto dell’emergenza COVID-19 (questo salvo estensioni o proroghe del termine del 30 giugno 2020, a nostro avviso necessarie).
Veniamo ora all’effetto indesiderato della norma, che rischia – anche in considerazione di quanto appena osservato – di compromettere il principio della par condicio creditorum, rendendo sostanzialmente impraticabili le azioni revocatorie in caso di dichiarazione di fallimento che dovesse intervenire allo scadere della moratoria.
Infatti, in ragione della posticipazione ex lege della dichiarazione di fallimento, il periodo sospetto rilevante per l’esercizio delle azioni revocatorie verrebbe traslato di quasi quattro mesi, lasso temporale che assorbirebbe, per le fattispecie più comuni, quelle del pagamento preferenziale di debiti scaduti di cui al secondo comma dell’art. 67 della Legge Fallimentare, quasi interamente il già breve termine semestrale quale previsto.
Nemmeno, del resto, la norma di raccordo contenuta nel terzo comma dell’Art. 10 del Decreto, quantomeno nell’attuale formulazione, consente di far retroagire gli effetti di una successiva sentenza di fallimento alla data di efficacia del Decreto al fine della identificazione degli atti revocabili.
Infatti, il richiamo operato dagli estensori del Decreto riguarda esclusivamente il computo del termine di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese per la fallibilità (art. 10 LF) e dei termini di decadenza dall’azione (art. 69bis LF), ma non quello utile all’identificazione degli atti compiuti in violazione del principio di concorsualità.
Se si considera che, nel quadro complessivamente risultante dal Decreto, il sacrificio della par condicio creditorum si consumerebbe con ogni probabilità nell’ambito di fallimenti che trovano il loro presupposto in uno stato d’insolvenza del tutto indipendente dall’emergenza pandemica, lo stesso appare davvero privo di una ragionevole contropartita.
Da ultimo, come anticipato, l’art. 9 del Decreto, con un pacchetto di proroghe e di apertura a dilazioni dei termini su richiesta del debitore, “ammorbidisce” i termini assegnati per l’accesso e per l’esecuzione dei piani concordatari e degli accordi di ristrutturazione, ancora una volta al fine di evitare che il contesto emergenziale rappresenti un ostacolo determinante all’accesso alle procedure o ne comprometta il buon esito.
I meccanismi di proroga sono automatici per le fattispecie di cui al primo comma dell’art. 9 (proroga di sei mesi del termine per l’adempimento dei concordati preventivi aventi scadenza tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021) mentre presuppongono, condivisibilmente, nei restanti casi una motivata richiesta del debitore che consenta di ricondurre il fondamento della proroga al contesto emergenziale.
In conclusione, pur condividendo lo spirito e le finalità dell’intervento normativo, dobbiamo ancora una volta constatare i limiti – spesso connaturati alla decretazione d’urgenza – della formulazione delle norme con tecnica chirurgica, che non di rado sottostima o addirittura dimentica istituti cardine del nostro ordinamento, in particolare le opportunità insite nell’applicazione delle norme civilistiche.
In particolare, in nell’attuale congiuntura, a nostro avviso la disposizione dell’art. 1256 c.c. – che notoriamente disciplina l’impossibilità sopravvenuta, anche temporanea, dell’adempimento – avrebbe di per se sola potuto costituire in tutte o quasi le fattispecie considerate una solida base giuridica di istanze di proroga o di sospensione di termini nonché – circostanza non di poco momento – consentito di escludere l’insussistenza dei presupposti dell’insolvenza (intesa come consolidata ed irreversibile capacità di adempiere) e con essa del fallimento dell’imprenditore.
Il tutto, con il non trascurabile effetto di contenere il rischio di abuso della normativa emergenziale e a tutto beneficio di una parità di trattamento tra imprenditori e tra creditori, parità che la definizione di finestre temporali rigide (e, come visto, non sempre puntuali) rischia di mettere in discussione o di affidare alle mani e al limitato margine di manovra dell’interprete.