Cambio di rotta della Cassazione sul recesso ad nutum dalla società di capitali

Plico di riviste

Con la sentenza n. 4716 del 22 febbraio 2020, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del recesso ad nutum dalle società di capitali, proponendo un deciso mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale consolidato circa l’equiparazione, sotto il profilo in discussione, tra società per azioni con termine di durata particolarmente lungo, superiore all’aspettativa di vita dei soci, e la società per azioni costituita a tempo indeterminato.

Nel caso in esame, alcuni soci di una società per azioni avevano esercitato il proprio recesso ad nutum per l’intera partecipazione sociale detenuta, in considerazione del fatto che la durata della società era fissata sino al 31/12/2100 e pertanto a una data ampiamente superiore alle loro aspettative di vita. Senonché una clausola dello statuto escludeva espressamente tale diritto in capo ai soci; clausola peraltro approvata dagli stessi recedenti in sede di modifica statutaria, così come quella della proroga della durata della società fino al 31/12/2100.

Sicché la società decideva di non accettare il recesso dei soci, in quanto, da un lato, la durata della società fissata nello statuto doveva considerarsi irrilevante e, dall’altro, i recedenti, accettando il contenuto delle clausole statutarie, avevano manifestato implicitamente la volontà di rinunciare al diritto di recesso ex art. 2437 c.c. e, pertanto, alla possibilità di exit con modi diversi dall’alienazione delle azioni.

Ritenendo, tuttavia, che la prolungata durata della società fissata nello statuto fosse da equiparare ad una durata indeterminata del contratto di società, ipotesi per la quale è normativamente ammesso il recesso ad nutum del socio di S.p.A. ai sensi dell’art. 2437, comma 3, c.c., i soci impugnavano la decisione della società ricorrendo al collegio arbitrale al fine di vedersi riconosciuto il proprio diritto di recesso.

Sia il lodo arbitrale che la sentenza della Corte d’Appello di Bologna resa a seguito di impugnazione del lodo, sulla scorta delle pronunce giurisprudenziali ampiamente consolidate, affermavano la legittimità del recesso esercitato dai soci, dovendosi ritenere la previsione statutaria di una società per azioni, contratta per un tempo particolarmente lungo, equiparabile a quella di società contratta a tempo indeterminato.

La decisione della Corte d’Appello di Bologna è stata tuttavia riformata dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto non ammissibile l’equiparazione tra le due fattispecie di recesso.

La Suprema Corte, in particolare, svolge una disamina delle pronunce più significative e dei principi dalla stessa enunciati in materia di recesso dalle società di capitali, affermando che, contrariamente a quanto fosse stato desunto dagli interpreti, l’equiparazione tra durata della società oltre la ragionevole aspettativa di vita dei soci e durata a tempo indeterminato di una società non sia mai stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità fin qui pronunciatasi.

Ebbene, secondo la sentenza n. 9662 del 2013 (storicamente la più significativa sul punto resa dalla Corte di Cassazione in tema di s.r.l.), “la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo (anche in quel caso, l’anno 2100), tale da superare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, ne determina l’assimilabilità ad una società a tempo indeterminatoonde, in base all’art. 2473 c.c., compete al socio in ogni momento il diritto di recesso, sussistendo la medesima esigenza di tutelarne l’affidamento circa la possibilità di disinvestimento della quota”.

Con la sentenza in commento la Corte motiva che la sentenza del 2013 non può essere richiamata in modo pertinente con riferimento al caso in esame per la diversità delle fattispecie concrete vagliate dall’Autorità giudiziaria.

La fattispecie vagliata nel 2013 aveva ad oggetto il diritto di recesso del socio dissenziente rispetto alla delibera assembleare con la quale era stata disposta la riduzione della durata della società a responsabilità limitata dall’originario termine dell’anno 2100 all’anno 2050.

Con la sentenza del 2013 la Corte aveva, sì, dichiarato legittimo il diritto di recesso del socio, ai sensi dell’art. 2473 c.c., ma solo in quanto la delibera assembleare impugnata era volta essenzialmente a impedire al socio di esercitare il recesso prima consentito: l’originaria durata statutaria, prevista per il 2100, doveva infatti considerarsi elusiva della causa di recesso ex art. 2437, comma 3, c.c., in quanto assimilabile ad una durata a tempo indeterminato, trattandosi di un’epoca così lontana da oltrepassare qualsiasi orizzonte previsionale, non solo della persona fisica ma anche di un soggetto collettivo.

In altri termini, la durata di una società a responsabilità limitata, prevista per un termine particolarmente lungo, fu in quell’occasione equiparata a quella a tempo indeterminato solo nella prospettiva di dichiarare l’invalidità di una delibera assembleare di modifica statutaria, artificiosamente diretta a privare il socio di una causa di recesso prima contemplata.

La Cassazione prende poi in esame la disciplina normativa del recesso dalle società per azioni prevista dall’art. 2437 c.c., al fine di argomentare adeguatamente la statuizione cui è giunta.

In primo luogo, sottolinea che l’art. 2437, comma 6, c.c. stabilisce espressamente l’inderogabilità soltanto delle ipotesi di recesso contemplate al comma 1, tra le quali non rientra la costituzione della società a tempo indeterminato, prevista al comma 3.

Ne deriva che, nel caso di specie, essendo stato espressamente escluso dallo statuto il diritto di recedere ad nutum dalla società, peraltro in forza di una deliberazione assunta anche dai soci recedenti, ad essi non può essere consentito l’esercizio di tale facoltà, nemmeno qualora si accettasse l’equiparazione tra la società con durata fino al 31/12/2100 e una società con durata a tempo indeterminato.

In secondo luogo, fornisce un’interpretazione restrittiva dell’art. 2437, comma 3, c.c., secondo la quale la possibilità di recedere ad nutum per il solo caso di società con durata a tempo indeterminato deve ritenersi assolutamente tassativa e non può pertanto estendersi analogicamente all’ipotesi della società con durata particolarmente lunga.

Tale assunto si fonda sulla necessità di effettuare una comparazione tra l’interesse del socio di S.p.A. a dismettere il proprio investimento e l’interesse del resto della compagine e della società stessa di portare avanti il progetto imprenditoriale – facendo affidamento sulle risorse presenti e sulla certezza delle stesse – connesso all’interesse dei terzi creditori, che, a loro volta, fanno affidamento sulla generica garanzia costituita dall’intero patrimonio sociale.

A tal riguardo, insiste la Corte, il Legislatore ha scelto appositamente di diversificare la disciplina delle società di capitali da quella delle società di persone per due ordini di ragioni: (i) per le società di persone è ammesso espressamente il recesso ad nutum quando la società sia contratta per l’intera vita del socio (art. 2285 c.c.), ma ciò solo in quanto il contratto, a differenza di quello delle società di capitali, è fondato sull’intuitus personae del socio; (ii) mentre i creditori di una società di persone possono fare affidamento, oltre che sul patrimonio societario, anche sui patrimoni personali dei soci illimitatamente responsabili, viceversa, i creditori di una società di capitali possono contare soltanto sul primo, che, in caso di recesso di un socio, subisce una corrispondente riduzione non compensata dalla responsabilità personale del recedente.

Ciò imporrebbe una interpretazione restrittiva delle norme che prevedono le ipotesi di recesso del socio di S.p.A.

A sostegno di tale assunto, la Corte si muove nel solco tracciato da altre sue due recenti pronunce che hanno rispettivamente affermato, per un verso, la necessità di preferire un’interpretazione restrittiva delle norme in tema di recesso dalle società di capitali, al fine di non incrementare a dismisura le cause che legittimano l’uscita dalla società (Cass. n. 13875/2017); per altro verso, che ai fini dell’equiparabilità tra durata indeterminata e durata particolarmente prolungata della società di capitali può rilevare solo il superamento della “ragionevole data di compimento di un progetto imprenditoriale” e mai le aspettative di vita di un socio (Cass. n. 8962/2019).

Senonché, a ben vedere, la Corte prende le distanze anche da quest’ultima interpretazione, affermando che l’estensione della facoltà di recesso ad nutum deve escludersi quando sia basata “su criteri di incerta definizione ed applicazione concreta, quali quelli della durata della vita umana, o anche di un progetto imprenditoriale, che renderebbero eccessivamente aleatorie le prospettive di soddisfazione dei terzi creditori”.

Seppur condivisibile sotto il profilo sistematico e teleologico, la pronuncia della Corte si mostra in alcuni passaggi salienti non adeguatamente e cristallinamente motivata e non del tutto condivisibile anche alla luce degli orientamenti precedentemente assunti: anzitutto è piuttosto impattante l’accantonamento del canone ermeneutico dell’analogia in situazioni sostanzialmente simili quali sono quelle di una società contratta a tempo indeterminato e di una società con durata particolarmente lunga. A maggior ragione, allorché il termine di durata della società sia, in ipotesi, fissato in un lontano futuro (si pensi a una società con termine di durata fissato al 2300).

A parere di chi scrive la Corte sembra non adeguatamente motivare il principio secondo il quale il Legislatore avrebbe inteso distinguere queste due situazioni ai fini dell’esercizio del diritto di recesso né tantomeno viene dedotta la ratio sottesa alla facoltà di recesso legislativamente prevista in presenza di società con durata a tempo indeterminato.

Ratio che evidentemente consiste nella necessità di consentire al socio di poter disinvestire da un progetto imprenditoriale di cui potenzialmente potrebbe non vedere la compiuta esecuzione, in forza del principio generale accolto dall’ordinamento secondo il quale non può essere vista con favore l’eventualità che un soggetto resti vincolato vita natural durante e senza alcuna opportunità di recesso alle obbligazioni assunte con un contratto. Non si comprende, pertanto, il motivo per il quale tale ratio non dovrebbe essere estesa al contratto di società con durata oltre le aspettative di vita del socio.

Da ultimo, l’interpretazione della Corte risulta altresì contraddittoria rispetto allo spirito della riforma delle norme codicistiche in materia di diritto societario del 2003, la quale ha allargato lo spettro delle cause di recesso dalle società di capitali nell’ottica di favorire il più possibile la libertà di iniziativa economica.

Concludendo, con la sentenza n. 4716/2020 si registra l’apice di un mutamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità maturato nel corso degli ultimi anni. La Corte, infatti, abbandona l’orientamento consolidato che, nello spirito della riforma societaria del 2003, accordava particolare attenzione agli interessi dei soci anche in sede di recesso dalla società, per tracciare, invece, un altrettanto (e forse più) condivisibile indirizzo volto a tutelare maggiormente gli interessi dei creditori sociali.

È auspicabile che la Cassazione, soprattutto alla luce del disposto normativo vigente, adotti un miglior contemperamento tra l’interesse dei soci al disinvestimento e quello dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale della società, in particolare determinando con più precisione i criteri per valutare se la previsione statutaria di una durata particolarmente lunga della società sia indicativa di un proposito di stabilità dell’investimento ovvero sottenda un’elusione della facoltà di recesso prevista dall’art. 2437, comma 3, c.c.

In ogni caso, alla luce delle nuove pronunce, pare certo che il diritto del socio di recedere ad nutum sia notevolmente più limitato rispetto al passato.

Scritto da
Alessandro Castioni